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Intervista al Maestro Shuhei Matsuyama
- di Diana Cavalcoli - Per gentile concessione dell'intervistato
M° Matsuyama, dal Karate dò all’arte del Ki su tela

Masuyama “Idealmente il foglio bianco è come un tatami. È un vuoto da riempire con energia, movimenti armonici e ritmo.”

Intervista al M° Shuhei Matsuyama, pittore di fama internazionale, Maestro di Karatedo 5° Dan, Kyoshi di Goshindo e docente del Corso istruttori e maestri FIKTA.
Nasce a Tokyo nel 1955 e nel 1976, dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti di Tokyo, si trasferisce in Italia per approfondire i suoi studi di arte pittorica presso l’Accademia di Belle Arti di Perugia dove conosce Mari, sua futura moglie e madre dei loro tre figli. A Perugia inizia anche la pratica del karate.
Nel 1979 a Palazzo dei Priori il Maestro allestirà la sua prima mostra e da allora presenterà le proprie opere in oltre cento mostre personali in Europa, Giappone e Stati Uniti d’America.
Dopo essersi trasferito a Rieti per sette anni, all’inizio degli anni ‘90 si sposta con la famiglia a Milano, dove attualmente vive e lavora. Pratica e insegna Karatedo in Italia da oltre 36 anni. [ndr]
Risme, torchi, vernici, rotoli di carta e pennelli. Nella cornice della stamperia milanese 74/B Shuhei Matsuyama, Maestro di Karatedo e pittore, ogni mattina si dedica alla ricerca artistica. Un momento di condivisione della propria energia, del “Ki” impresso sulla tela bianca. Per approfondire la sua visione dell’arte e della pratica marziale siamo andati a trovarlo nel suo studio, interrompendo per qualche momento il suo lavoro.

Maestro, oggi l’arte e il Karatedo sono due elementi complementari nella sua vita. Quale di queste due passioni nasce per prima?
L’amore per l’arte mi accompagna dalle scuole superiori, mentre il Karatedo l’ho conosciuto in Italia a vent’anni. Può sembrare un paradosso, ma dico sempre che sono dovuto partire per riscoprire le mie radici. In Giappone ero uno studente all’Accademia di Belle Arti di Tokyo e giocavo a baseball. Del Karate e della sua filosofia sapevo poco. Solo quando sono volato a Perugia negli anni Settanta, per approfondire l’arte rinascimentale, ho incontrato il Maestro Takumi Ozawa. A lui prima e al Maestro Shirai dopo devo la riscoperta della cultura orientale attraverso la pratica quotidiana.

Diventare un artista marziale ha cambiato il suo modo di concepire l’arte?
Moltissimo. Ha rivoluzionato il mio modo di pensare e mi ha insegnato l’importanza dell’armonia, del movimento e dell’energia. Una valorizzazione dello spirito, del Ki, che cerco di restituire sulla tela attraverso le mie opere. È il concetto delloShin Gi Tai applicato all’atto creativo. Per produrre l’arte servono infatti cuore, tecnica e corpo.

In questo c’è molto vicinanza con lo Shodo, l’arte calligrafica giapponese, che lei pratica da diversi anni.
Fin da piccolo ho vissuto con l’esempio di mia madre Maestra di Shodo. Sono cresciuto tra pennelli e inchiostro ed è stato un grande aiuto quando ho iniziato a dipingere. L’avere familiarità con l’utilizzo dello spazio è cruciale e lo è anche per chi pratica Karatedo. Idealmente il foglio bianco è come un tatami. È un vuoto da riempire con energia, movimenti armonici e ritmo. Si può tracciare un parallelo tra il karateka che esegue un kata in uno spazio definito e il pittore o il maestro di Shodo.

Quali sono i punti di contatto tra l’arte in senso lato e l’arte marziale?
Nessuna delle due strade si può percorrere in solitudine ed entrambe richiedono pazienza. Nel Karatedo l’elemento della condivisione è fondamentale sia nel rapporto con il Maestro che con gli altri allievi. Il confronto e la costanza sono la base da cui partire per migliorarsi. D’altro canto l’arte è una forma di comunicazione che presuppone un pubblico, non ci può essere distanza tra chi dipinge e chi guarda l’opera. Per questo porto le mie esposizioni in tutto il mondo da Tokyo a San Francisco. Mi piace l’idea di condividere un linguaggio universale che poi è quello dell’energia.

Come l’arte anche il Karatedo si evolve e si rinnova nel tempo. Nella pratica nel dojo c’è un aspetto creativo secondo lei?
Certo! Penso al Maestro Shirai e alla nascita del Goshindo. In Giappone usiamo il termine Shu Ha Ri per indicare la capacità di innovare senza dimenticare la tradizione. Un approccio fondamentale nella ricerca della tecnica di combattimento più efficace. Nell’arte c’è un percorso analogo di evoluzione della tecnica pittorica. L’esempio che amo fare è quello dei quadri di Turner e Monet, che ispirano la mia opera. Le loro pennellate sono diventate accostamenti di colori dai contorni sempre più indefiniti. Rispetto agli esordi nelle ultime tele di Turner dedicate a Venezia o nelle Ninfee di Monet, non si distingue più la linea tra aria e acqua. Sono le basi per l’astrattismo.

Parlando di evoluzioni: nel 2020 ci saranno le olimpiadi a Tokyo. Il Karate per la prima volta nella storia è stato inserito nei giochi. C’è il rischio, come avvenuto per il Judo, che si perda la natura di arte marziale in favore della componente sportiva?
I giochi olimpici possono essere un bene ma anche un male. Il timore, che condivido, è che venga meno il senso della pratica in quanto mezzo per migliorare lo spirito e tutto si riduca al vincere o perdere un incontro. Può essere però un buon modo per far conoscere l’arte marziale al mondo. Sta a chi pratica non dimenticare l’origine del Karatedo. Bisogna lavorare sull’equilibrio tra agonismo e crescita personale.

Rimaniamo in prospettiva futura. Tra i suoi progetti più recenti ci sono i quadri Shin-on, dove si vede tra dieci anni?
Shin-on significa ‘grido del cuore’, un’espressione del sé. Si tratta delle vibrazioni, o dell’energia interna dell’autore, che vengono condivise con chi sceglie di posare lo sguardo sull’opera. Continuerò il progetto e dato che ogni elemento della collezione è numerato mi piacerebbe scoprire dove sono volati i quadri acquistati. L’idea è realizzare nei prossimi anni una mappa online di questi lavori. Un modo per vedere dove si è sparsa nel mondo l’energia che ho dipinto.

hakuyukaikaratedo.com - shuheimatsuyama.com

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